Brand del lusso e piattaforme on-line: un nuovo connubio contro la contraffazione
È fatto noto che piattaforme come quelle di Amazon, Facebook e Instagram, data la loro ampia diffusione, siano terreno fertile per truffe e violazioni. Infatti, spesso hanno fatto notizia cause relative a tematiche di contraffazione del marchio e concorrenze sleale, che hanno visto i grandi brand del lusso contrapposti proprio ai giganti della tecnologia, titolari delle predette piattaforme, ritenute responsabili delle violazioni perpetrate anche attraverso le stesse. A titolo d’esempio, si pensi all’ormai nota sentenza Coty della Corte di Giustizia Europea o anche al più recente caso del Tribunale di Milano, che ha visto opposto il brand di cosmetica di lusso Sisley ad Amazon. Tuttavia, possiamo dire che una nuova tendenza si è recentemente affermata: diversi brand del lusso del settore moda hanno fatto squadra con i titolari delle piattaforme di vendita online, al fine di vedere tutelati i propri diritti di proprietà intellettuale e limitare le attività di vendita di prodotti contraffatti.
Il caso più recente è quello di Gucci, che nel mese di aprile di quest’anno, tramite la sua controllata americana, ha avviato una causa congiunta con Facebook innanzi il Tribunale Distrettuale del Distretto Nord della California contro la Signora Natalia Kokhtenko per la violazione dei diritti di proprietà intellettuale di Gucci, contraffazione dei marchi e concorrenza sleale e violazione dei termini di servizio e delle condizioni d’uso delle piattaforme Facebook ed Instagram.[1] In particolare, Gucci America e Facebook sostengono che per almeno un anno, la Signora Kokhtenko ha utilizzato uno svariato numero di account Facebook ed Instagram per promuovere la propria attività commerciale di vendita tramite diversi siti web di molteplici prodotti a marchio Gucci contraffatti.
I termini e condizioni d’utilizzo di queste piattaforme, che devono essere sempre accettati da ogni utente in fase di iscrizione e creazione del proprio account, prevedono espressamente regole che vietano di porre in essere tramite le stesse azioni lesive di diritti altrui, inclusi i diritti di proprietà industriale ed intellettuale. In relazione al caso di specie, Facebook e Gucci affermano che ciononostante la Signora Kokhtenko ha costantemente utilizzato le piattaforme per promuovere la vendita di articoli non originali a marchio Gucci, anche attraverso l’uso non autorizzato di diversi marchi registrati della casa di moda, come il famoso logo a doppia G e la famosa “fettuccina” a colori verde/rosso/verde, ben noti e certamente riconducibili alla maison. Risulta evidente, come tali attività, si pongano in violazione dei diritti di privativa industriale di titolarità di Gucci e siano suscettibili di causare confusione e/o errore, nonché ingannare i clienti, i potenziali consumatori ed il pubblico più in genere, circa l’origine dei prodotti, facendo credere che gli stessi siano fabbricati, concessi in licenza, sponsorizzati, approvati o altrimenti associati a Gucci.
Dopo aver scoperto gli account della Signora Kokhtenko e i corrispondenti siti web, Gucci ha inoltre provato ad acquistare, tramite uno dei suoi agenti, un certo numero di prodotti, potendo così accertare che ciascuno di essi era contraffatto. In tale contesto, Gucci ha avvisato Facebook che inizialmente ha agito come da prassi, ovvero disattivando più di 160 account su Facebook e Instagram riconducibili alla Signora Kokhtenko e rimuovendo più di 125 post che promuovevano i prodotti contraffatti. A seguito di tali azioni però, Facebook ha rilevato che l’utente ha continuato ad accedere ed utilizzare le piattaforme in violazione dei termini e delle condizioni d’uso previsti, anche ponendo in essere tattiche ingannevoli al fine di aggirare i sistemi di verifica e sicurezza.
Alla luce di quanto sopra, le due società hanno deciso di agire congiuntamente per ottenere un’ingiunzione che fermasse le attività in concorrenza sleale ed in violazione dei diritti di proprietà intellettuale del brand, nonché in violazione dei termini e condizioni d’uso delle predette piattaforme digitali. Inoltre, Gucci America ha chiesto un risarcimento pari al triplo di qualsiasi profitto realizzato dalla Signora Kokhtenko tramite l’attività illecita o, in alternativa, un risarcimento stabilito d’ufficio pari a 2.000.000 dollari per ciascuno dei marchi che sono stati oggetto di contraffazione.
Ma Gucci non è stata l’unica che ha deciso di fare squadra con i grandi della tecnologia per proteggere il proprio brand ed i propri titoli di privativa industriale. Infatti, la prima ad agire in tal senso è stata la maison di moda Valentino, che nel 2020 ha intentato innanzi la Corte di New York una causa congiunta con Amazon contro la società Buffalo Kaitlyn Pan Group LLC e contro la Signora Hao Pan per la contraffazione delle note Rockstud – calzature iconiche della casa di moda – e per la messa in vendita di prodotti illeciti, sia tramite il sito kaitlynpanshoes.com, che attraverso la piattaforma di Amazon, agendo in violazione sia dei termini e condizioni di vendita del marketplace stesso, che dei diritti di proprietà intellettuale di Valentino.[2] Anche in questo caso, Amazon ha chiuso l’account del venditore Kaitlyn Pan a settembre 2019. Nonostante le molteplici notifiche di violazione e una ingiunzione a desistere, ad oggi Kaitlyn Pan continua a importare, distribuire, vendere e offrire prodotti illeciti sul proprio sito. Kaitlyn Pan ha inoltre tentato di richiedere un marchio statunitense per le sue scarpe contraffatte Valentino Garavani Rockstud, violando palesemente e volontariamente i diritti di proprietà intellettuale di Valentino.
Sempre nel 2021, invece, è stata la volta della casa di moda italiana Salvatore Ferragamo che con Amazon ha intentato due cause presso il Tribunale del Distretto Occidentale di Washington contro quattro persone fisiche e tre giuridiche che hanno messo in vendita tramite la piattaforma digitale prodotti in contraffazione del marchio Ferragamo.[3]
Le motivazioni che, nei casi di cui sopra, spingono ad agire le case di moda sono note. I titolari di marchi ed altri diritti di proprietà intellettuale, infatti, investono molto nella lotta alla contraffazione, in qualsiasi mercato ed attraverso qualsiasi strumento. Fondamentale è l’implementazione nel tempo di una serie di misure anticontraffazione – online e offline – a tutela sia dei propri clienti, che del proprio marchio. Si tratta di un aspetto necessario per un’efficace azione di brand protection e valorizzazione dei propri asset, che includo aspetti come la ricerca, l’innovazione, la sostenibilità, l’artigianalità e, per molte aziende, anche il “Made in Italy”.
Invece, per le piattaforme ed i marketplace la lotta alla contraffazione può dirsi che sia diventata solo recentemente un obbiettivo, anche in termini di vantaggio competitivo da poter sfruttare per distinguersi dai concorrenti che iniziano a proliferare, specialmente in mercati come quello asiatico, dove i marketplace digitali sono una realtà sempre più comune. I dati parlano chiaro: nel 2020, Amazon ha investito oltre 700 milioni di dollari e impiegato più di 10.000 persone per proteggere il proprio marketplace da frodi e abusi. Di conseguenza, afferma la società, la maggioranza degli utenti ha continuato a trovare solo prodotti autentici. [4]
I sistemi di controllo messi in atto da Amazon comprendono, oltre ad un severo e costante monitoraggio dei venditori, l’utilizzo di tecnologie avanzate per il riconoscimento automatico dei falsi, oltre a tutti gli ulteriori programmi di cooperazione a protezione marchi, come “Project Zero” ed il Transparency e Brand Registry. Inoltre, a giugno 2020, Amazon ha lanciato la sua “Counterfeit Crimes Unit” formata da un team globale dedicato, anche attraverso il lavoro congiunto con le forze dell’ordine, a perseguire i presunti colpevoli di frodi ed abusi e ad assicurarne la prosecuzione secondo le normative applicabili. Infatti, la Counterfeit Crimes Unit lavora a stretto contatto con diversi soggetti, tra cui i brand del lusso, le piccole aziende e titolari di marchi riconosciuti a livello globale, con l’obbiettivo di proteggere la proprietà intellettuale e combattere la contraffazione.
E seguendo questo filone sempre più e-commerce, sia di grandi che di piccole dimensioni, hanno iniziato a dotarsi di un documento aggiuntivo rispetto ai termini e condizioni di acquisto dedicato alle frodi volto a dare ai consumatori tutte le informazioni necessarie ad effettuare un acquisto corretto.
In tutti i casi che precedono sia le case di moda, che le società titolari delle piattaforme web hanno a più riprese affermato che si tratta di un naturale passo nella progressione di una fruttuosa collaborazione dove i diversi player del mercato possono unire le rispettive risorse e competenze per responsabilizzare gli utenti e smascherare in modo efficace i contraffattori che abusano dei diversi diritti di terzi.
Lo scopo è quello di rendere chiaro che gli abusi di cui ai casi in oggetti non sono tollerati ed al contempo garantire ai consumatori un ambiente social e di shopping più sicuro ed affidabile.
È infatti ipotizzabile che soggetti come Amazon e Facebook siano desiderosi di dare una spinta maggiore al mercato del lusso e al c.d. “social commerce” attraverso le proprie piattaforme; ma per farlo devono essere in grado di dimostrare che le loro tecnologie non sono veicoli per la contraffazione, ma piuttosto che sono ambienti sicuri per i titolari di marchi ed altri diritti di proprietà intellettuale, ad oggi ancora restii alla vendita dei propri prodotti tramite questi canali. E infatti proprio i brand del lusso, storicamente e nella maggior parte dei casi, prevedono una tassativa esclusione dei citati marketplace dai canali di distribuzione dei propri prodotti anche da parte dei propri distributori autorizzati.
Che sia un primo passo verso un’inversione di tendenza?
Studio legale DGRS – Avv. Ilaria Gargiulo e Avv. Laura Mastrocicco
[1] Facebook Inc., and Gucci America, Inc. v. Natalia Kokhtenko, (3:21-cv-03036) U.S. Disctrict Court at the North District of California.
[2] Amazon.com, Inc. and Valentino S.p.A. v. Kaitlyn Pan Group, LLC and Hao Pan (2:20-cv-00934) U.S. District Court for the Western District of Washington.
[3] Tra le altre, Amazon.com, Inc. and Salvatore Ferragamo S.p.A. v. Jun, et al. (2:21-cv-00171) U.S. District Court for the Western District of Washington at Seattle.
[4] Per maggiori dettagli si veda il report annuale pubblicato da Amazon in materia di brand protection. L’edizione del 2020 è consultabile al seguente link: https://assets.aboutamazon.com/96/a0/90f229d54c8cba5072b2c4e021f7/amz-brand-report.pdf.