Investimenti di capitale e opzione put: ancora sul patto leonino
La recente sentenza della Suprema Corte n. 7934 del 25 marzo 2024 offre lo spunto per un commento sul rapporto tra opzione put a favore degli investitori che consentano il recupero del capitale investito e divieto del patto leonino nonché sul concetto di meritevolezza giuridica
Nella prassi delle operazioni di investimento in ambito venture capital è rinvenibile abbastanza frequentemente – soprattutto nel contesto di società che si trovino in fase seed– una peculiare struttura contrattuale nella quale l’investitore di turno effettua nella società target un apporto di equity puro (ossia mediante sottoscrizione di un aumento di capitale dedicato oppure mediante un versamento in conto futuro aumento di capitale) con la previsione che, al verificarsi di determinati trigger events (generalmente legati al peggioramento delle prospettive reddituali della società target oppure al deterioramento della sua situazione patrimoniale, economica e/o finanziaria), i soci founder si obbligano a riacquistare dall’investitore la partecipazione dallo stesso detenuta nella società target ad un prezzo che generalmente ricomprende sia l’investimento iniziale effettuato sia una certa percentuale di interessi maturati sul capitale impiegato (sia, se del caso, gli ulteriori versamenti effettuati medio tempore dall’investitore). Questa soluzione viene comunemente implementata mediante la previsione di un obbligo di riacquisto della partecipazione inizialmente sottoscritta dall’investitore da parte dei fondatori (con correlati obblighi risarcitori in caso di mancato riacquisto), ma più spesso mediante previsione di un’opzione put ai sensi dell’articolo 1331 del codice civile a favore dell’investitore da esercitarsi entro un certo termine ad un prezzo predeterminato (determinato, come visto, in ragione dell’investimento effettuato e della remunerazione prospettica dello stesso e, in ogni caso, svincolato dal reale valore di mercato delle quote oggetto dell’opzione).
Com’è agevolmente comprensibile, la struttura contrattuale sopra delineata cela, dietro un investimento in capitale di rischio, un’operazione di finanziamento c.d. “partecipativo” in virtù della quale l’investitore beneficia degli utili realizzati dalla società, ma non partecipa alle perdite se non nei limiti in cui le stesse non superino la soglia del trigger event; se poi il meccanismo è congegnato tramite un’opzione di vendita, può decidere in quale momento “staccare la spina” e cessare di partecipare alle perdite.
La ragione primaria per cui nell’ambito del venture capital esistono forme di finanziamento di questo tipo è squisitamente patrimoniale: se da un lato sono facilmente comprensibili le difficoltà che una start-up in fase seed può trovare nel rivolgersi al settore bancario (nonostante le misure approntate dal legislatore a sostegno delle stesse), dall’altro lato beneficiare di un finanziamento che a bilancio non deve essere classificato come passività ma come voce di patrimonio netto, migliora sensibilmente i ratio patrimoniali della società target anche in termini di capitalizzazione teorica, non impatta in alcun modo sulla sua posizione finanziaria netta e, quale corollario, non le preclude la possibilità di ricorrere a forme di finanziamento più tradizionali quando la stessa sarà finalmente “bancabile”. Per l’investitore, il vantaggio è rappresentato dal fatto che l’investimento gode dei benefici del capitale di rischio senza i correlativi svantaggi poiché, se tutto va male, il capitale di rischio si “converte” in capitale di debito, con l’unica differenza che il rischio controparte si sposta dalla società target ai soci fondatori.
Tuttavia, non è tutto oro quello che luccica: la garanzia per l’investitore rappresentata dalla facoltà di exit a valori predeterminati rischia infatti di andare incontro a nullità, laddove la stessa potrebbe essere considerata in violazione del divieto di patto leonino previsto dall’articolo 2265 del codice civile (previsto per le società di persone, ma ritenuto dalla giurisprudenza e dalla dottrina dominanti comunemente applicabile anche alle società di capitali), a mente del quale «è nullo il patto con il quale uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione agli utili o alle perdite».
A prescindere dalle finalità di questa norma nell’ambito del contratto di società – su cui non è in questa sede possibile dilungarsi – la Corte di Cassazione ha già avuto modo di pronunciarsi a più riprese su tale questione, argomentando che è lecito e meritevole di tutela l’accordo negoziale concluso tra i soci di una società con il quale l’uno, in occasione del finanziamento partecipativo erogato dall’altro, si obblighi a manlevare il socio finanziatore dalle eventuali conseguenze negative del conferimento effettuato in società, mediante l’attribuzione del diritto di vendita (c.d. put) entro un termine dato ed il corrispondente obbligo di acquisto della partecipazione sociale a prezzo predeterminato, pari a quello dell’acquisto, pur con l’aggiunta di interessi sull’importo dovuto e del rimborso dei versamenti operati nelle more in favore della società (Cass. 4 luglio 2018, n. 17498; Cass. 21 ottobre 2019, n. 26774; Cass. 7 ottobre 2021, n. 27227).
Recentemente, Cass. 25 marzo 2024, n. 7934 ha avuto modo di tornare sull’argomento in una fattispecie in cui era coinvolta, quale “finanziatore partecipativo” una società a partecipazione pubblica e in tale contesto la Suprema Corte ha offerto un ulteriore interessante spunto circa la valutazione di meritevolezza di una clausola che conferisca il diritto di exit all’investitore consentendo allo stesso di recuperare integralmente il capitale investito e la remunerazione di tale capitale investito, evidenziando che, nel caso di specie, la componente causale del patto rispondeva «ad interessi meritevoli di tutela che, oltre ad essere del tutto coerenti con quelli societari, costituivano la ragione ultima della istituzione delle finanziarie regionali, il cui apporto di denaro in prevalenza pubblico è statutariamente volto a sostenere le imprese che non potrebbero reperire sul mercato della finanza».
La Corte ha, così, “aperto le maglie” all’interpretazione del concetto di meritevolezza di tutela da parte dell’ordinamento, estendendo l’oggetto dell’indagine non soltanto – come finora argomentato nelle precedenti pronunce – alla causa in concreto esistente all’interno della regolamentazione degli accordi tra le parti, ma valutando meritevole anche la funzione socio-economica e di incentivazione dell’investitore/finanziatore rispetto all’ecosistema delle società target e financo l’interesse rappresentato dalla possibilità per le società di accedere a forme di finanziamento innovative ed alternative a quelle offerte dal tradizionale canale bancario.
Se nel caso della recente pronuncia della Corte di Cassazione la valutazione di “meritevolezza” circa la regolamentazione contrattuale favorevole all’investitore è stata agevolata dalla sua natura pubblicistica, sarà interessante valutare se questo principio di matrice giurisprudenziale sarà esteso alla generalità degli operatori nel mercato del venture capital, quali ad esempio fondi di investimento privati e business angel i quali peraltro condividono – con gli enti finanziari pubblici – un’importante funzione sociale di sostenimento finanziario e di incentivazione economica con riferimento a quel tessuto di PMI più bisognoso di sostegno, che è quello delle start-up innovative.