Software: quali tutele?
Il software è l’insieme dei programmi che possono essere impiegati su un sistema di elaborazione dei dati e, a seconda delle caratteristiche che possiede, può essere (in tutto o, più spesso, in parte) brevettato o protetto come opera dell’ingegno ai sensi del diritto d’autore. Ne viene spesso sottovalutata la portata, soprattutto nell’ambito dei rapporti contrattuali ed è per questo che vogliamo ricordare alcuni principi in merito.
Come andremo ad analizzare di seguito, il software può essere distinto in software come c.d. metodo” e software c.d. “in quanto tale”. Il legittimo titolare dei diritti sul trovato, laddove non voglia condividere con terzi l’invenzione, dovrà valutare se il trovato può essere oggetto di tutela brevettuale o se invece dovrà essere oggetto di tutela autorale, fermo restando che, a prescindere dalla classificazione di cui sopra, il predetto titolare potrà eventualmente decidere di tutelare il trovato quale segreto industriale.
La tutela brevettuale del software
In origine, l’Ufficio Europeo dei Brevetti prevedeva un divieto generale di proteggere il software tramite brevetto; tuttavia, tale divieto è stato ridimensionato, e la normativa vigente prevede che non possono essere brevettati i c.d. software “in quanto tali”. Ad oggi, è quindi consentito brevettare software presentati come “metodo”, o come “mezzo tecnico che implementa un metodo”: il software deve costituire una soluzione originale ad un problema tecnico e produrre un c.d. effetto tecnico, ossia deve offrire un effetto tecnico aggiuntivo che va al di là della normale interazione tra il programma ed il computer sul quale è eseguito.
Quando il requisito sopra citato è soddisfatto, il software può essere brevettato ai sensi dell’art. 45 del Codice di proprietà industriale (“cpi”), il quale stabilisce che “possono costituire oggetto di brevetto per invenzione le invenzioni, di ogni settore della tecnica, che sono nuove e che implicano un’attività inventiva e sono atte ad avere un’applicazione industriale”. Al contrario, il medesimo articolo esclude da questa tutela “a) le scoperte, le teorie scientifiche e i metodi matematici; b) i piani, i principi ed i metodi per attività intellettuali, per gioco o per attività commerciale ed i programmi di elaboratore; c) le presentazioni di informazioni”. Se concesso, il brevetto assicura al titolare dello stesso un diritto di utilizzazione esclusiva dell’invenzione per una durata di 20 anni nel territorio in cui è stato concesso.
Fermo quanto sopra, si ritiene opportuno fare un breve excursus e fornire una definizione anche di algoritmo oltre che di software. In particolare, per algoritmo si intende una “sequenza ordinata di operazioni di calcolo”[1] su dati acquisiti che sono in grado di suggerire le opportune operazioni da eseguire sui predetti dati, al fine di raggiungere un determinato risultato.
Ai sensi del sopracitato art. 45 cpi, gli algoritmi non possono essere oggetti di tutela brevettuale quando sono algoritmi in quanto tali, venendo in tal senso considerati alla stregua dei metodi matematici. Per poter accedere a questo tipo di tutela anche gli algoritmi devono – al pari di quanto menzionato sopra per i software – deve costituire una soluzione originale ad un problema tecnico.
Tenendo a mente che l’algoritmo rappresenta una componente del software e che entrambi devono soddisfare il medesimo requisito per accedere alla tutela brevettuale, nel proseguo faremo generalmente riferimento al software, ma similarmente tali concetti trovano applicazione anche in relazione agli algoritmi.
Ed invero, nel caso in cui il software – soprattutto se oggetto di brevetto – venga realizzato nell’ambito di un rapporto di lavoro, sarà importante disciplinare con cura questo aspetto nel contratto, al fine di individuare a chi spettano i diritti patrimoniali sul software realizzato (i diritti morali sull’invenzione saranno sempre in capo al dipendente/inventore) ma soprattutto prevedere correttamente la remunerazione del lavoro svolto. A tal riguardo, infatti, vengono in rilievo le regole inerenti le c.d. invenzioni dei dipendenti (disciplinate all’art. 64 del codice della proprietà industriale) che si distinguono in:
- invenzioni di servizio, realizzate nel corso di una attività lavorativa che i) contrattualmente, prevede la ricerca dell’invenzione e ii) è oggetto di specifica retribuzione. In questo caso, i diritti patrimoniali sul trovato sono di titolarità del datore di lavoro;
- invenzioni di azienda, realizzate nel corso di una attività lavorativa ma non sono oggetto di specifica retribuzione. In tale ipotesi, i diritti patrimoniali sul trovato saranno di titolarità del datore di lavoro a fronte del pagamento di un equo premio al dipendente nel caso in cui i) il brevetto viene registrato o ii) l’invenzione viene sfruttata come segreto industriale. Si rileva in primo luogo l’intenzione del legislatore di non limitare la possibilità al dipendente di ricevere un equo premio solo nel caso in cui l’invenzione viene effettivamente brevettata, ma tale riconoscimento viene concesso a fronte di uno sfruttamento economico del trovato da parte del datore di lavoro. Per quantificare l’equo premio, si deve tenere conto i) dell’importanza dell’invenzione, ii) delle mansioni svolte dall’inventore/dipendente, iii) delle mansioni svolte dall’inventore/dipendente, iv) dalla retribuzione percepita dall’inventore/dipendente e infine v) dal contributo ricevuto dall’inventore/dipendente dal datore di lavoro. In altre parole, quindi, l’equo premio consiste in un riconoscimento al dipendente per la propria attività inventiva nello svolgimento delle sue mansioni, che ha portato al datore di lavoro un vantaggio economico. Tale obbligo del datore di lavoro di corrispondere un equo premio al dipendente potrebbe venire meno solo nel caso in cui, successivamente, il giudice emetta una sentenza che declara la nullità del brevetto;
- invenzioni occasionali, realizzate dal dipendente ma fuori dal contratto di lavoro. In tale ipotesi, i diritti patrimoniali sul trovato saranno di titolarità del dipendente e il datore di lavoro avrà un diritto di opzione sull’uso dell’invenzione o sull’acquisto del brevetto.
Per quanto riguarda le c.d. invenzioni dei lavoratori autonomi, invece, sempre fermo restando che il diritto morale sul trovato resterà in capo all’inventore, l’individuazione del soggetto titolare dei diritti patrimoniali sull’invenzione è da ricercarsi nel contratto con cui le parti hanno regolato il rapporto di collaborazione. Ed invero, nell’ipotesi in cui l’individuazione del soggetto titolare dei diritti patrimoniali sull’invenzione non è espressamente indicato nel contratto, la giurisprudenza è tendenzialmente concorde nell’attribuirli al soggetto committente, come affermato dal Tribunale di Torino il quale rileva che “quando l’attività creativa (nella specie: di software) costituisce l’oggetto della prestazione del lavoratore autonomo, del consulente o del professionista, i diritti patrimoniali derivanti dalla creazione nascono direttamente in capo al committente, quantomeno per applicazione analogica degli artt. 12-bis l-aut[2] e 64 c.p.i.”[3]. E ancora, si rileva altresì che “l’imprenditore acquista i risultati del lavoro del dipendente – nell’esecuzione delle sue mansioni o su istruzioni impartite – senza alcun atto di trasferimento, quale effetto derogabile del contratto. I software rielaborati nel corso del rapporto di lavoro sono automaticamente trasferiti nella titolarità del datore di lavoro, senza necessità di atto traslativo e senza corrispettivo, salvo patto contrario”[4]. In ogni caso, l’inventore sarà titolare dei diritti morali sul trovato.
La tutela autorale del software
Nel caso in cui il software non produce un effetto tecnico e a prescindere dalla tutela brevettuale (che può non essere di interesse quando non si vuole condividere l’invenzione), questo potrà essere protetto ai sensi della Legge sul diritto d’autore (“LDA”), che tutela la forma espressiva del software (quali il codice sorgente e il codice oggetto). Il software è incluso nell’elenco di opere dell’ingegno di cui all’art. 2 LDA, il quale prevede espressamente che sono tutelati “i programmi per elaboratore in qualsiasi forma espressi, purché originali quale risultato di creazione intellettuale dell’autore. Restano esclusi dalla tutela accordata dalla presente legge le idee e i principi che stanno alla base di qualsiasi elemento di un programma, compresi quelli alla base delle sue interfacce. Il termine programma comprende anche il materiale preparatorio per la progettazione del programma stesso”. In questo caso, i diritti morali e patrimoniali vengono riconosciuti all’autore del software nel momento in cui lo stesso viene creato; la tutela viene concessa per 70 anni dalla morte dell’autore o, in caso di più autori, dell’ultimo di questi.
Come sopra, se il software viene realizzato nell’ambito di un rapporto di lavoro, è sempre necessario specificare nel contratto le attività che sono state concordate tra le parti e la relativa retribuzione. Questo in quanto l’art. 12-bis LDA stabilisce che “salvo patto contrario, il datore di lavoro è titolare del diritto esclusivo di utilizzazione economica del programma per elaboratore o della banca di dati creati dal lavoratore dipendente nell’esecuzione delle sue mansioni o su istruzioni impartite dallo stesso datore di lavoro”.
Nell’ambito di un rapporto di lavoro dipendente, è quindi chiaro che in assenza di diversa pattuizione, i diritti patrimoniali sul trovato sono di titolarità del datore di lavoro (mentre i diritti morali restano in capo al dipendente/autore del software).
Diversamente, nell’ambito di un rapporto di lavoro autonomo, la situazione non è così definita e alcune criticità sono state rilevate nell’applicazione di questa previsione (in particolare, si discute se i principi desumibili da questa norma, quale ad esempio la modalità di acquisizione dei diritti patrimoniali, possono essere estesi anche al contratto di lavoro autonomo). In tale ipotesi, rileva ancor di più l’importanza di dettagliare nello specifico l’attività all’interno del contratto.
Come anticipato, i diritti morali e patrimoniali sono riconosciuti all’autore nel momento in cui il software viene creato. Per poterlo dimostrare (soprattutto in caso di contestazione), il software può essere depositato presso la SIAE e inserito nel “registro pubblico speciale per i programmi per elaboratore”: in questo modo, al titolare viene rilasciato un certificato che attesta la paternità e la data di creazione del software.
In ragione di quanto sopra, ferma l’importanza della valutazione del software che si vuole proteggere al fine di individuare la corretta strategia da seguire, è importante che già nella fase di commissione/realizzazione dello stesso siano chiari i rapporti tra le parti coinvolte, tramite accordi scritti e dettagliati ai quali far riferimento in caso di contrasti sorti successivamente.
[1] Consiglio di Stato, sez IV, 8 aprile 2019 n. 2270.
[2] L’art. 12-bis LDA stabilisce che “Salvo patto contrario, il datore di lavoro è titolare del diritto esclusivo di utilizzazione economica del programma per elaboratore o della banca di dati creati dal lavoratore dipendente nell’esecuzione delle sue mansioni o su istruzioni impartite dallo stesso datore di lavoro”.
[3] Tribunale di Torino, Sez. spec. Impresa, 16 novembre 2020 n.3959.
[4] Tribunale di Milano, 24 luglio 2017; vedi anche Tribunale di Bologna, sez. IV, 12 maggio 2020 n. 739.