Spunti di riflessione sulla natura e validità delle comunicazioni trasmesse tramite sms, e-mail o altre piattaforme digitali
La rivoluzione digitale in corso ha indubbiamente avuto un impatto rivoluzionario sul mondo della comunicazione, consentendo – attraverso i molteplici strumenti tecnologici ormai alla portata di tutti – di comunicare e dialogare con i propri interlocutori, senza particolari preoccupazioni legate alla distanza geografica.
Inutile dire che anche il mondo del diritto è stato investito in pieno da questa onda rivoluzionaria, con la naturale conseguenza che, al giorno d’oggi, è piuttosto frequente trovarsi dinnanzi a dichiarazioni negoziali, oppure a forme di adempimento, che si perfezionano attraverso l’utilizzazione di strumenti tecnologici, quali ad esempio sms, e-mail, o WhatsApp.
La giurisprudenza, giocoforza, si è progressivamente interessata a questi cambiamenti, iniziando a riconoscere, con sempre maggior frequenza, il valore e l’efficacia della forma scritta anche alle manifestazioni negoziali rese tramite mezzi e piattaforme tecnologiche, valorizzando i principi di buona fede e correttezza attraverso i quali dovrebbero sempre esprimersi e interpretarsi le intenzioni contrattuali delle parti (artt. 1362 e 1366 c.c.).
A ben vedere, infatti, la “tradizionale” sottoscrizione di un documento costituisce solo una delle possibili modalità attraverso le quali la volontà di un soggetto può tradursi in forma scritta; certamente si tratta della modalità più apprezzabile, non solo per la sua immediatezza ma, anche, poiché risolutiva, alla radice, del problema legato alla provenienza della dichiarazione – salvo ovviamente il caso di disconoscimento.
Ciò non toglie, tuttavia, che una valida manifestazione negoziale possa derivare anche da “scritti” differenti; astraendoci, per un attimo, dall’ambito giuslavoristico, l’esempio più lampante di tale apertura rispetto alle “moderne” forme di comunicazione è ravvisabile in una recente pronuncia della Corte costituzionale[1], la quale ha così statuito sul tema: “Posta elettronica e messaggi inviati tramite l’applicazione WhatsApp (appartenente ai sistemi di cosiddetta messaggistica istantanea) rientrano, dunque, a pieno titolo nella sfera di protezione dell’art. 15 Cost., apparendo del tutto assimilabili a lettere o biglietti chiusi”. Attraverso il riferimento all’art. 15 della Costituzione la Corte, senza troppi giri di parole, equipara le e-mail e i messaggi scambiati su WhatsApp alla “corrispondenza” (con tutte le tutele connesse).
Sulla stessa scia si sono poste tanto la Suprema Corte di Cassazione[2] – la quale, riconducendo strumenti quali sms, e-mail e WhatsApp all’interno del concetto di “rappresentazioni meccaniche di fatti e di cose” di cui all’art. 2712 c.c., ha rilevato come i messaggi veicolati con tali piattaforme possano formare “piena prova dei fatti e delle cose rappresentate” – quanto la giurisprudenza di merito che, in diverse occasioni, si è trovata a riconoscere, a vari fini, piena efficacia contrattuale agli scambi di messaggi tramite WhatsApp, sms ed e-mail.
A titolo esemplificativo, si ricordano:
- il Tribunale di Ravenna[3] che, in tema di asserite pretese creditorie, ha riconosciuto la rilevanza probatoria degli scambi WhatsApp intercorsi tra le parti, laddove costituiscano elemento utile a dimostrare la sussistenza delle pretese;
- il Tribunale di Milano[4] che, in tema di mediazione e, in particolare, di diritto al compenso da parte del mediatore, ha concesso un’ingiunzione di pagamento, assumendo come acquisita la prova scritta dell’accordo raggiunto dalle parti, attraverso l’acquisizione dello screenshot di un semplice scambio WhatsApp;
- il Tribunale di Genova[5], che ha riconosciuto la piena efficacia della forma scritta ad un semplice sms inviato dal cellulare.
Inevitabilmente, anche l’ambito giuslavoristico è stato più volte interessato da simili questioni e, anche in tale contesto, la conformità della corrispondenza tramite sms o e-mail alla forma scritta è stata più volte riconosciuta, ad esempio per quanto attiene alle formalità richieste per la procedura di licenziamento.
Ricordando, infatti, come l’art. 2 della Legge n. 604/1966 prescriva il requisito della forma scritta del licenziamento, pena l’inefficacia dello stesso, si segnala come sia la Corte di Appello di Firenze[6] (prima) sia il Tribunale di Catania[7] (dopo) abbiano affermato essere correttamente integrato il requisito della forma scritta al recesso dal rapporto di lavoro intimato attraverso un messaggio WhatsApp.
La Suprema Corte[8] ha poi avvalorato tale ricostruzione, riconoscendo – anche dal canto suo – la sussistenza del requisito della forma scritta al licenziamento comunicato tramite posta elettronica, sul presupposto che si tratti di modalità che – pur differente dal cartaceo – comporta comunque la trasmissione al destinatario, con avvenuta ricezione da parte dello stesso, di un documento scritto nella sua materialità.
Al netto di tali indiscutibili aperture da parte della giurisprudenza, risulta in ogni caso doveroso formulare una riflessione circa i profili di criticità connaturati a tali mezzi di comunicazione, in particolare in relazione alla difficoltà di raggiungere un grado di certezza assoluto (da un lato) in relazione alla provenienza della comunicazione e (da altro lato) alla prova della ricezione della comunicazione da parte del destinatario.
Trattandosi di orientamento ancora in via di consolidamento, si registrano – infatti – anche pronunce in senso contrario, quali ad esempio la recente ordinanza della Suprema Corte[9], secondo la quale la richiesta di audizione da parte del lavoratore (a seguito della ricezione da parte sua di una contestazione disciplinare) deve, necessariamente, essere trasmessa per mezzo pec e non tramite e-mail ordinaria, in quanto solo la posta elettronica certificata garantirebbe la prova dell’avvenuta consegna della comunicazione.
Per quanto l’approccio della giurisprudenza degli ultimi tempi vada nella direzione di attribuire sempre maggior valore alle manifestazioni negoziali rese tramite i vari mezzi e le varie piattaforme tecnologiche, la strada da percorrere sembra, dunque, ancora tortuosa, con la conseguenza che – qualora le circostanze lo consentano – resta comunque preferibile continuare ad utilizzare i più tradizionali mezzi di comunicazione[10], nella consapevolezza che – in caso di necessità – si potrà disporre di validi argomenti per riconoscere la medesima valenza probatoria (tipicamente attribuita ai documenti scritti, intesi nella loro materialità) anche a eventuali comunicazioni veicolate attraverso le varie piattaforme tecnologiche a disposizione.
[1] Corte costituzionale, n. 170, del 17 luglio 2023
[2] Cass. civ. sez. VI, n. 11606, del 14 maggio 2018; Cass. civ. sez. VI, n. 3540, del 6 febbraio 2019; Cass. civ. sez. II, n. 5141, del 21 febbraio 2019; Cass. civ. sez. I, n. 19155, del 17 luglio 2019
[3] Trib. Ravenna, n. 231, del 10 marzo 2017
[4] Trib. Milano, n. 6935, del 10 agosto 2021
[5] Trib. Genova, n. 4330, del 24 novembre 2016
[6] App. Firenze, n. 629, del 5 luglio 2016
[7] Trib. Catania. sez. lav., ordinanza del 27 giugno 2017
[8] Cass. civ., sez. lav., n. 29753, del 12 dicembre 2017
[9] Cass. civ., sez. lav., n. 35922, ordinanza del 22 dicembre 2023
[10] Quali – ad esempio – la raccomandata a/r, piuttosto che quella brevi manu